Artemisia Gentileschi, pittrice contro la violenza sulle donne
Stuprata da un pittore e illusa in continuazione, riuscì ad affermarsi nonostante soprusi e maldicenze, ancora oggi è considerata un simbolo del femminismo
29 marzo 2019 - È stata la prima
pittrice a portare nell’arte i soprusi
sulle donne nel XVII secolo, trasformando la violenza
in bellezza. Grazie al suo coraggio e alle sue doti, Artemisia
Gentileschi ha sfidato le consuetudini del suo tempo e oggi è
ricordata non solo come un’artista speciale ma anche come un simbolo del femminismo.
Nata a Roma l’8
luglio 1593 dal pittore Orazio Gentileschi e da Prudenzia Montone,
Artemesia mostrò sin dalla tenera età uno spiccato talento pittorico, ereditato
dal padre – importante esponente di scuola cavaraggesca – e coltivato proprio
nel suo studio. Qui a 17 anni realizzò la sua prima opera, Susanna e i
vecchioni, nella quale viene ritratta una donna mentre fa il bagno
insidiata da due uomini ai quali cerca di sfuggire. Il tema della condizione
della donna in quell’epoca ricorre prepotentemente nei suoi lavori.
‘Susanna e i Vecchioni’, 1610 |
La spensierata
pratica presso la bottega del padre terminò nel 1962, a causa del dramma che la
sconvolse un anno prima, quando fu violentata dal pittore Agostino
Tassi. All’epoca esisteva la possibilità di estinguere il reato di
violenza carnale qualora fosse seguito dal matrimonio riparatore tra
l’accusato e la persona offesa. Per questo, Artemisia continuò a intrattenere
una relazione con Tassi, nella speranza che le nozze salvassero la sua
reputazione. Speranze disattese, quando la ragazza scoprì che Tassi era già
sposato. Decise dunque di intentare un processo nei confronti del suo
stupratore. La sua deposizione fu fatta sotto tortura, mentre le venivano
schiacciate le dita. È a questo periodo che risale una delle sue opere più
note: Giuditta che decapita Oloferne (1612 – 1613). Salta
all’occhio il diverso ruolo della donna. Se in Susanna e i vecchioni era
una vittima, qui agisce e si vendica.
Giuditta che decapita Oloferne (1612 – 1613) |
Dopo la
conclusione della vicenda giudiziaria, Artemisia
dovette combattere a lungo contro i pregiudizi e le false voci messe in giro
sul suo conto: venne accusata di rapporti incestuosi con il padre Orazio,
di avere numerosi amanti ed una condotta disdicevole. Lasciò Roma e per
mettere a tacere le maldicenze il giorno dopo la fine del processo
sposò un artista fiorentino, Pierantonio Stiassesi.
Il suo talento
e la sua volontà le permisero di ottenere grandi risultati e di entrare nell’Accademia
del Disegno, prima donna in assoluto a ricevere questo onore. In quegli
anni realizzò alcune delle sue opere più celebri – La conversione della
Maddalena (1615-1616) e la Giuditta con la sua ancella (1625-1627)
– che hanno come tema donne coraggiose e determinate come le eroine
bibliche. Ebbe due figlie ma nel 1621, mostrando ancora una volta il
suo spirito indipendente, lasciò il marito e tornò a Roma. Le difficoltà
lavorative però la spinsero nel 1630 a spostarsi prima a Venezia e poi a
Napoli, dove – a parte una parentesi a Londra per lavorare insieme al padre –
rimase fino alla morte, avvenuta nel 1653.
Numerosi
critici hanno interpretato le opere della Gentileschi in chiave “femminista”. Si può anche
notare un’evoluzione nel ruolo della donna: da sottomessa e perdente rispetto
alla figura maschile a forte e capace di vendicarsi e di trionfare sull’uomo.
Segno che la violenza subita lasciò ferite profonde in Artemisia e che usò
l’arte come terapia. Per questo, Artemisia è considerata anche oggi un
esempio di donna capace di affermarsi nella società, nonostante le ingiustizie e i soprusi.