Sunday, January 20, 2019


“Roma”, l’amarcord di Alfonso Cuarón

La memoria come unica guida, il bianco e nero del passato ma il digitale per riportarla al presente: per il regista messicano, "Roma", dopo il trionfo a Venezia, è il film della vita.

“Roma” è il nome del quartiere di Città del Messico in cui Alfonso è nato 57 anni fa, e proprio sulla base di quei ricordi di bambino ha scritto, da solo, il copione. La protagonista è Cleo (Yalitza Aparicio, non professionista più brava di tante attrici da una vita), la tata di una famiglia borghese – che poi sarebbero i Cuarón stessi –, padre assente, madre dolente, figli confusi, per fortuna una nonna saggia. Tutt’attorno c’è il Messico dei primi anni Settanta, con il capitalismo che bussa alla porta, le inquietudini rivoluzionarie, la tensione continua tra tradizione e modernità. 

«Perché ho fatto questo film?», si interroga Alfonso da sé. «Per esplorare a fondo la mia memoria. Ma anche perché volevo capire cosa avrebbe significato per me, oggi, tornare a quei ricordi. La memoria è l’unico strumento che ho usato per scrivere Roma. Mi sono confrontato con i miei fratelli e, soprattutto, con la vera Cleo: non potevo tradire la sua storia. Ma è stata la mia testa a guidarmi. E nella mia testa ho vissuto il conflitto tra passato e presente, con quella domanda che non mi mollava mai: come cambia il passato quando lo osservi, a distanza, dal tempo di oggi? Ho rivissuto la strettissima correlazione tra la mia vita di allora e quella di adesso. E il rapporto con il mio Paese. Sono nato e cresciuto in Messico, lo senti il mio accento quando parlo in inglese, non riesco a levarmelo. E penso ancora in chilango, il dialetto di Città del Messico. Ma da più di vent’anni, quasi trenta ormai, non vivo più lì. Ci torno spesso e penso che non è più la mia città, anche se ancora la sento tale. Dopo aver lavorato così a lungo sui miei ricordi, dopo aver pensato a come riportare in vita ogni dettaglio – le atmosfere, i luoghi, tutti gli angoli di quel quartiere –, finalmente ho visto la sua trasformazione. La troupe era composta da messicani che in quelle strade vedevano il presente, io ci vedevo solo il passato: stavo in un posto che conosco da sempre senza sapere più quello che è. Ora finalmente l’ho capito. Quindi sì, con questo film c’entrano i miei capelli bianchi. C’entra il passare del tempo. Mi sono visto dentro il mio passato, e ho scoperto la persona che sono diventato».
Il regista con Cleo, la protagonista principale


Roma è girato in bianco e nero, ed è Cuarón medesimo a firmare la fotografia bellissima, sontuosa, quasi sfacciata. Anche questo c’entra col passato? «Non voglio intellettualizzare troppo la mia scelta, non so se mi spiego. Il bianco e nero era, semplicemente, nel Dna del film. Quando ho deciso che era arrivato il momento di girare Roma, ho messo subito sul tavolo tre punti che sapevo sarebbero rimasti fermi. Il primo: Cleo al centro di tutto. Il secondo: le scene sarebbero state prese direttamente dalla mia memoria, non le avrei romanzate come avevo fatto, per dire, con Y Tu Mamá También (il film del 2001 che l’ha consacrato ad autore su scala internazionale, nda). Il terzo: l’avrei fatto in bianco e nero. Ho messo in discussione molti altri elementi nel corso della lavorazione, ma mai questi tre. Quando mi venivano in mente soluzioni perfette per una sequenza, ma sentivo che queste idee mi avrebbero allontanato dalla realtà dei fatti, le scansavo immediatamente». Quei fotogrammi che sembrano usciti da una mostra di Robert Capa, allora, non sono una concessione arty, sono tutti veri: l’allenamento dei lottatori di arti marziali nel campo di terra battuta, il piano sequenza nel negozio di mobili e, più di tutti, quella corsa e quell’abbraccio in riva all’oceano che sono la chiave intima e visiva del film. «Del confronto continuo tra passato e presente fa parte anche l’uso del bianco e nero. Non volevo che fosse nostalgico, non cercavo un effetto vintage. Avevo in mente un film ambientato negli anni Settanta ma profondamente contemporaneo. Per questo ho scelto il digitale in 65mm, mi avrebbe permesso di trovare un bianco e nero nitido, non granuloso, l’opposto di quello di una volta. Ovvio, quando scegli questa fotografia fai fatica a non farti prendere la mano, a non amplificare i contrasti, hai sempre in mente i grandi noir degli anni Quaranta, il lavoro di maestri come Gregg Toland con Orson Welles… Ma io ho cercato una luce completamente diversa, molto più naturalistica, senza uno stile troppo marcato. Volevo una luce naturale, ecco, come guardare il sole che entra da quella finestra e portarlo sullo schermo, così com’è».


Nel presente c’è ancora Cleo, solo anche lei un poco più vecchia. «È ancora con noi, e dico noi perché è parte della nostra famiglia. Vive nella stessa casa in cui mi ha cresciuto, sua figlia è come se fosse mia nipote, ci ritroviamo tutti insieme per le occasioni importanti. C’era tra noi un rapporto fortissimo allora e c’è adesso, Cleo era la sostituta di mia madre, anzi era proprio la mia mamma india. Roma è un film su di lei ma anche su una donna e basta, con tutta la sua complessità. Cleo è stata accolta nella mia famiglia, ma ha sempre dovuto fare i conti con la sua classe sociale e con il suo background indigeno. Ha vissuto una tripla forma di esclusione in quanto minoranza: per la sua classe, per l’etnia, per il sesso. Era, a suo modo, un’immigrata in una realtà che non le apparteneva, e anche questo è un tema che oggi mi sta a cuore. L’integrazione non riguarda solo il Messico, ma tutto il mondo. E io volevo raccontare non la storia di una serva, ma di una donna coi suoi bisogni. Anche sessuali: quando pensiamo a chi vive ai margini della società, non ci viene mai in mente che anche loro vogliono fare l’amore, proprio come noi. Certe cose sono completamente escluse dalla conversazione, sono un tabù». La lettura femminista del film è una tentazione forte di questi tempi, soprattutto da parte della stampa statunitense. «Ma io non volevo fare un film militante, non m’interessava il messaggio politico. Volevo inserire una donna ben precisa in uno scenario sociopolitico ben preciso, ma soprattutto analizzare le relazioni affettive di un gruppo di personaggi e le conseguenze emotive che questi rapporti comportano. La politica non spetta a me».

Con Roma ero molto più esposto, più nudo di altri film. Era un viaggio nel vuoto, e come ci vai nel vuoto? Io ho improvvisato. Ho scelto soluzioni anche scomode. Guarda quella scena sulla spiaggia, la più dura da girare: volevo che fosse pulita, senza effetti da macchina a mano. Ma trovare quella stabilità, dovendo continuamente spostarmi dalla sabbia alle onde, sembrava impossibile. Lo spettatore doveva entrare, lì come in tutto il film, nel flusso del momento, senza sapere dove quel momento lo avrebbe portato».

Alfonso dai capelli bianchi ha detto di aver compreso, grazie ai ricordi di ieri, quello che è oggi. Ma non ha svelato l’esito della sua riflessione. Ci arriviamo prima di salutarci, col sole che ancora entra dalla finestra. «Ho capito che la mia infanzia è stata molto più simile a quella dei miei nonni, forse persino dei miei bisnonni, che a quella dei miei figli. È indubbio che stiamo sperimentando una nuova generazione di persone ultra-tecnologizzate, dunque con una visione del mondo completamente diversa. Ho fatto un salto all’indietro per guardare anch’io al futuro con occhi nuovi. Qualunque sia la prossima sfida per l’umanità, sono sicuro che porterà qualcosa di buono»

             di Mattia Carzaniga, Rolling Stone